Plebiscito - Venezia e dintorni

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Notizie storiche

IL PLEBISCITO
 E se Venezia iniziò ad andare "sottacqua" per quell'incuria che gli fu riservata dai montanari piemontesi, la popolazione dell'entroterra iniziò ad andare "sottoterra" per le malattie, la pellagra, la malaria e la fame o a dover lasciare la propria terra  perchè nel plebiscito non " ...tutto si svolse con mirabile ordine e fra universali manifestazioni di gioia". Come scrissero sui giornali e sui libri i prezzolati panegiristi dei sabaudi
Il plebiscito che sancì l'annessione del Veneto all'Italia viene liquidato dai nostri libri di storia con poche battute visto che la storiografia ufficiale sostiene che " ...tutto si svolse con mirabile ordine e fra universali manifestazioni di gioia". (Achille Saitta, Storia Illustrata, mensile giugno 1966, Mondadori).

 
1. La cessione all'Italia avvenne il giorno prima del plebiscito in palese contrasto con quanto stabilito dalla pace di Vienna
Probabilmente, nella storiografia ufficiale, si sono documentati poco; basterebbe vedere la lapide "ricordo" con il numero (641.758) dei voti SI posta  nel Palazzo del Doge a Venezia; sapere quanti abitanti aveva allora Venezia  le sue province e Mantova (2.500.000); vedere il supplemento al n. 74 del 1866 del Giornale di Vicenza; L'Arena di Verona del 9 gennaio 1968; vedere La Gazzetta di Verona del 17 ottobre 1866; ma soprattutto leggere la  Gazzetta di Venezia del 20 ottobre che riporta un anonimo trafiletto "Questa mattina (il 19) in una camera dell'Albergo Europa si è fatta la cessione del Veneto":

manifesto propagandistico riprodotto dal volume: Castelgomberto, ed. Comune di Catelgomberto

Cioè... prima del plebiscito (del 21-22) il Veneto era già stato "passato" dalla Francia all'Italia in una stanza dell'Hotel Europa lungo il Canal Grande. Il generale francese Leboeuf consegnò il Veneto a tre notabili: il conte Luigi Michiel, veneziano, Edoardo De Betta, veronese, Achille Emi-Kelder, mantovano. Questi a loro volta, lo "deposero" nelle mani del commissario del Re conte Genova Thaon di Revel.
Il trattato internazionale (fra Austria e Prussia del 23 agosto a Praga) prevede il passaggio del Veneto alla Francia che poi lo consegnerà ai Savoia. Nel trattato di pace di Vienna fra l'Italia e l'Austria del 3 ottobre si parla testualmente  "sotto riserva del consenso delle popolazioni debitamente consultate": un riconoscimento internazionale al diritto all'autodeterminazione del popolo veneto che in quel momento ha la sovranità sul suo territorio.
Teniamo anche presente che c'è stata l'ipotesi, come scrisse l'ambasciatore asburgico a Parigi Metternich al suo ministro degli esteri Mensdorff-Pouilly il 3 agosto 1866, di arrivare a "l'indipendenza della Venezia sotto un governo autonomo com'era la vecchia repubblica".
Il plebiscito avrebbe dovuto svolgersi sotto il controllo di una commissione di tre membri che "determinerà", in accordo con le autorità municipali, il modo e l'epoca del plebiscito, che avrà luogo liberamente, col suffragio universale e nel più breve tempo possibile". Così era stato concertato dall'ambasciatore d'Italia a Parigi Costantino Nigra con il governo francese, che sembrava determinato a svolgere fino in fondo il proprio ruolo di garante internazionale sancito anche dal trattato di pace fra Prussia e Austria.

2.  La Francia rinuncia al proprio ruolo di garante

 Il governo italiano invece, e in particolare il presidente Bettino Ricasoli interpretava pro domo sua i trattati:
"Quando si tratta del plebiscito si tratta di casa nostra; non è già che si faccia il plebiscito per obbedienza o per ottemperare al desiderio di qualche autorità straniera...La pazienza ha il suo limite. Perbacco! La cessione del Veneto fu nel Parlamento inglese chiamata un insulto all'Italia. Concedendo la presenza del generale francese all'effetto delle fortezza, mi pare di concedere molto" Barone Ricasoli.


E così uno sconsolato generale Le Boeuf scrive a La Vallette il 15 settembre: "Nutro inquietudine per l'ordine pubblico: le municipalità fanno entrare le truppe italiane o si intendono col re, che governa una gran parte: egli deve lasciar fare. Il plebiscito non si potrà fare che col re e col governo". 
Altro che controlli, altro che garanzie internazionali!
Lo stesso generale Boeuf annunciava il 18 ottobre a Napoleone II di aver protestato contro il plebiscito decretato dal re d'Italia: Napoleone gli dice di lasciar perdere. La Francia praticamente rinuncia al proprio ruolo di garante internazionale e consegna il Veneto ai Savoia.
E' interessante leggere a questo punto sia la circolare del Commissario del re per la Provincia di Belluno datata 5 ottobre sia il manifesto del 7 ottobre che indice a Vicenza  il plebiscito (l'immagine sopra  riportata): Ed è ancora più interessante leggere cosa rispondono i Comuni:
Pous 12/ott. " ...a presidenti del Comizio di questo Comune nel giorno che verrà stabilito e nel quale concorrerà questa popolazione unanime a deporre nell'urna quel Sì cui farà conoscere il desiderio di unirsi al tanto sospirato Regno d'Italia."
Lozzo 10/10 "In pari tempo si fa dovere la sottoscritta di assicurare S.E. che della medesima non mancherà di adoperarsi affinchè la votazione abbia a riuscire di unanime accordo della dedica a S.M. il Re Vittorio Emanuele II"
Auronzo 8/10. " Tanto si affretta lo scrivente Municipio di partecipare a S.V. e fin da questo momento può assicurare sull'esito pieno del suffragio di questo Comune a favore dell'unità del Regno d'Italia".

Di sicuro il plebiscito venne "preceduto da una vera campagna di stampa intimidatoria dei fogli cittadini, preoccupatissimi per l'influenza che il clero manteneva nelle zone rurali dove, aveva scritto in settembre il Giornale di Vicenza, - "....i campagnoli furono lasciati nell'ignoranza o nell'apatia d'ogni civile concetto, educati all'indifferenza per ogni sorta di governo". Si Scriveva ad esempio "...ricordino essi (i Parroci e i Cooperatori dei ns. villaggi) che ove in alcuna parrocchia questo voto non fosse sì aperto, sì pieno quale lo esige l'onore delle Venezie e dell'Italia, sarebbe assai difficile non farne mallevatrice la suddetta influenza clericale, e contenere l'offeso sentimento nazionale dal prendere contro i preti di quelle parrocchie qualche pubblica e dolorosa soddisfazione".
Questa politica intimidatoria tuttavia non ebbe grossi effetti sulla partecipazione popolare: " A Valdagno, ad esempio nonostante il plebiscito venisse decantato non come semplice formalità e cerimonia, ma una festa, una gara, solo circa il 30% sulla complessiva popolazione del Comune si recò a votare, mentre un buon 70% per chissà quale motivo, preferì continuare ad occuparsi dei fatti propri, indifferente all'avvenimento. Analogamente in tutti i distretti..." (votarono 642.100 su 2.500.000).
"Garibaldi si infuriò perchè i veneti non si erano sollevati per conto proprio, neppure nelle campagne dove sarebbe stato facile farlo" (scrive Mack Smith, - ma dimentica (Garibaldi, e lui ne sapeva qualcosa di esercito piemontese, vedi gli arresti e la galera, o Smith) che l'esercito piemontese era stato fatto entrare dalle autorità municipali; e forse sia Garibaldi che Smith  non hanno mai visto i manifesti o letto gli articoli, e come fu approntato il plebiscito.


Sulla libertà del voto e sulla segretezza dello stesso ci illumina la lettura di "Malo 1866" di Silvio Eupani:
"Le autorità comunali avevano preparato e distribuito dei viglietti col SI e col NO di colore diverso; inoltre, ogni elettore, presentandosi ai componenti del seggio, pronunciava il proprio nome e consegnava il viglietto al presidente che lo depositava nell'urna"; L'urna del SI era a destra, quella del NO a sinistra.
Federico Bozzini così descrive in L'arciprete e il cavaliere quanto avvenne a Cerea:
"Come già si disse, vi dovevano essere due urne separate, una sopra un tavolo, l'altra sopra l'altro. Se per caso non avesse urne apposite, potrà adoperare un quartarolo del grano (una specie di secchio per la misura del grano. Ndr.) Sopra una sarà scritto ben chiaro il SI e sopra l'altra il NO".


3. LO SPOGLIO (Le istruzioni lo considerano inutile, dato che i votanti venivano registrati su registri diversi per il Si o per il No)
"I protocolli (registri dove si scrivono i nomi dei votanti) sono due, uno per i votanti che presentano il viglietto del SI , l'altro per il viglietto  del NO, in modo che il numero complessivo dei viglietti, finita l'operazione del voto, rende inutile lo spoglio di ciascheduna urna. Nel protocollo  dei viglietti  del NO si dirà: votarono negativamente i seguenti cittadini. Alla fine la Commissione concluderà gridando "Viva l'Italia unita sotto lo scettro della Casa di Savoia".

Poi c'era il manifesto che non lasciava dubbi in quanto "serenità" di come votare.
Poi i giornali citati sopra: La Gazzetta di Verona del 17 ottobre era chiarissima: "...SI vuol dire essere italiano ed adempiere al voto dell'Italia. NO, vuol dire restare veneto e contraddire al voto dell'Italia".
Una sottolineatura importante: già allora qualcuno aveva capito che una cosa erano i veneti e un'altra gli italiani e che gli interessi degli uni raramente coincidevano con gli interessi degli altri.

4. NON FU TROVATO ALCUN VERBALE DELLE OPERAZIONI DI VOTO

 Che fu un raggiro (chiunque lo capisce da solo), che fu una presa in giro con quanto detto sopra, basterà anche ricordare quest'altro episodio:
Nel 1903 lo storico Luigi Sutto di Rovigo, fu incaricato di costituire il Museo del Risorgimento, e quindi di ricostruire dati ed episodi del Plebiscito.
Andò incontro a un insuccesso quasi totale. Il decreto del 1866 prevedeva che i pretori trasmettessero alla Corte d'Appello i verbali dei risultati Comune per Comune. Luigi Sutto ebbe riconoscimenti e consigli anche in sede ministeriale, ma non ebbe mai in visione i fascicoli. E annota sconsolato; "... nè Pretura né Municipi li hanno! Nelle mie ricerche e investigazioni...ho potuto conoscere solamente i voti dei singoli Comuni del Friuli, nessun giornale del Veneto fece altrettanto, nemmeno la Gazzetta di Venezia,  che nemmeno pubblicò i voti dei Comuni appartenenti alla provincia di Venezia...".
"Ed è deplorevole che i Comuni non conoscano i voti che essi hanno dato per la loro unione alla Patria, voti che in pari tempo indicano la fine della dominazione straniera"
Scrive ancora Bozzini (op.cit.) "C'è stato dopo il 1866 un concorso generale a truccare e a italianizzare ex post tutti i brandelli di storia dell'opposizione veneta al dominio austriaco...".
"...La storia della nostra regione, così come ci è stata raccontata dagli storici ufficiali ed accademici, è un falso solenne direttamente funzionale a costruire un'immagine mona della nostra gente..."

 
5. SE AVESSERO VINTO I NO

E' una domanda retorica perchè sappiamo che hanno vinto i si e non poteva essere che così.
D'altra parte i toni minacciosi, le promesse di rappresaglia, ecc. fanno intendere che comunque fossero andate le cose il Piemonte non avrebbe ritirato le proprie truppe nè i propri delegati. In altre parole il plebiscito era soltanto una rappresentazione e come tale il finale era già scritto e la regia aveva già disposto ogni cosa.
 

6. DOPO COSA ACCADDE?

Secondo la storia ufficiale, i veneti con occhio ebete guardaron partire i padroni austriaci e videro arrivare quelli piemontesi e " ...tutto si svolse con mirabile ordine e fra universali manifestazioni di gioia". Ma si tolsero tutti veramente deferenti il cappello?  
NO! Ci fu una sistematica distruzione del patrimonio culturale e linguistico del veneto (lo resero persino ridicolo tanto che fino a poco tempo fa, alcuni registi, per far ridere la gente, mettevano sempre nei loro film la serva tonta o il bellimbusto mona), si calpestò l'identità e la cultura, la regione la si abbandonò alla deriva economica, industriale, agricola, artigianale, marittima; e la gente ricominciò a digiunare.
La storiografia ufficiale, continuava a battere il tamburo dell'italianismo, rappresentando ogni evento in chiave italianista e trascurando quei dettagli che potevano far intendere che la ribellione dei veneti verso lo straniero era del tutto autonoma. Per esempio non si trova traccia del fatto che durante l'eroica resistenza di Venezia contro l'Austria ( durata circa un anno), il Piemonte aveva inviato dei propri emissari in laguna con promesse di assistenza ed appoggio: tali emissari furono immediatamente rispediti al mittente.

L'ira del veneto, con una buona dose di ironia, fu espressa in tutta una serie di filastrocche, molto popolari.

Con san Marco comandava (quando comandava San Marco)
se disnava e se senava (si faceva pranzo e si cenava)
Soto Franza, brava gente (sotto la Francia che era brava gente)
se disnava solamente (si cenava solamente)
Soto Casa de Lorena (sotto la casa Lorena)
non se disna e no se sena (niente pranzo e niente cena)
Soto Casa de Savoia (mentre sotto Casa Savoia)
de magnar te ga voja (di mangiar hai solo voglia).
(Giuseppe de Stefano-G.Antonio Palladini - 
Storia di Venezia 1797.1997 - vol II, pag 276, Supernova, Venezia, 1997).

All'insegna del "Fatta l'Italia, bisogna fare gli italiani"

"Noi l'abbiam fatta! l'abbiam fatta noi!
-dicono in coro gli italiani eroi_
l'avete fatta, è vero, ma per Dio
puzza che leva il fiato! dico io!"


7. BISOGNA FARE GLI ITALIANI

La famosa frase di Massimo d'Azzeglio, che tutti abbiamo dovuto imparare come il massimo della visione italianista esprime tutto il controsenso della vicenda risorgimentale. Come si può affermare che l'unità d'Italia era stata voluta dagli italiani se gli italiani bisognava ancora farli ?
E cosa significa "farli"? forse che d'Azzeglio e il governo piemontese avevano uno stampo dell'italiano tipo?
Oltre a tutto il Piemonte, lo stato meno italiano dell'insieme della miriade di staterelli esitenti in Italia, si arroga il diritto di stabilire come devono essere gli italiani.
Analogamente, il Piemonte, lo stato storicamente e culturalmente meno compenetrato nella cultura e nella tradizione italiana, si arroga il diritto di dettare un modello statale estrapolandolo dalle tradizioni locali e quel che è peggio ignorando e demolendo i modelli statali già esistenti ed organizzativamente migliori.
Ma "fare gli italiani" aveva anche un significato politico ancor più minaccioso: lo stato riconosce di dover attuare tutte le iniziative necessarie per attirare il consenso ai propri programmi neutralizzando il dissenso. E poichè il dissenso era più forte ed organizzato in quelle popolazioni ( come i veneti) che avevano una  storia, delle tradizioni, una base culturale, ecc. ecco che il fare l'italiano diventa un riscrivere la storia, mortificare le tradizioni, distruggere l'apparato economico che per duemila anni aveva consentito ai veneti di vivere tranquillamente nel loro territorio.

 
8. MIGRAZIONE - ESODO - PULIZIA ETNICA

La conseguenza più importante dell'arrivo dei piemontesi fu.... la partenza dei veneti!!!
Una emigrazione biblica, in seguito a uno stato di miseria e di disperazione come non era mai avvenuta in veneto in 2000 anni (la ricca Aquileia ed Altino di anni ne hanno anche di più).
Interi paesi emigrarono alla ricerca della "Merica", soprattutto in America latina e in particolare in Brasile, dove oggi hanno ricreato un altro "ricco" Veneto al di là dell'Oceano, conservando tenacemente la propria cultura, le proprie tradizioni, la propria lingua. Ma allora fu un dramma, per coloro che partivano e peggio per coloro che rimasero; cioè fame, disperazione e tasse (con la famigerata tassa sul macinato, sul pane, la tassa sulla miseria). "... nelle nostre campagne sono poveri tutti, i fittavoli, i proprietari di fazzoletti di terra, incredibilmente poveri i braccianti, i salariati, gli artigiani..." così scriveva D. Lampertico.

Il malcontento cresceva: ecco allora la necessità di rafforzare l'apparato repressivo.
La stroria di Venezia, praticamente scompare dai libri scolastici, vengono vietate le feste tradizionali e perfino l'uso di strumenti musicali della tradizione locale: I Veneti si ritrovano ad essere un popolo senza storia o al massimo una progenie del popolo romano (in chiave italianista)..
Sentiamo cosa scrisse L'arena di Verona, giornale da sempre nazional-tricolore il 9 gennaio 1868,
dopo appena 13 mesi "SOTTO" i Sabaudi:  "....Fra le mille ragioni per cui noi aborrivamo l'austriaco regime, ci infastidiva sommamente la complicazione e il profluvio delle leggi e dei regolamenti, l'eccessivo numero di impiegati e specialmente di guardie e gendarmi, di poliziotti e di spie. Chi di noi avrebbe mai atteso che il governo italiano avesse tre volte tanto di regolamenti, tre volte tanto di personale di pubblica sicurezza, di carabinieri, ecc....?"
I "Liberatori" "taliani" arrivarono al punto di proibire le tradizionali processioni religiose in quanto "assembramento pericoloso per l'ordine pubblico" (testo ripreso da La difesa del popolo, Settimanale della diocesi di Padova, 10-5-1981).
Il Veneto di questi "tempi duri" è costellato da tutta una seria di rivolte e di manifestazioni: a Thiene, S. Germano Vicenza, Cavarzere, Cadore, Legnago, Polesine ecc. - Ma nella storiografia ufficiale non c'è traccia. "...tutto si svolse con mirabile ordine e fra universali manifestazioni di gioia"
Invece la rabbia dei Veneti viene mirabilmente descritta in un passo dei I va in Merica  una poesia dialettale del grande Berto Barbarani: "Porca Italia - i bastemia- andemo via!" I fatti citati sono tratti dal volume: "1866: LA GRANDE TRUFFA"  Il plebiscito di annessione del Veneto all'Italia" di ETTORE BEGGIATO -  Editoria Universitaria Venezia, 1999. del quale si riporta uno stralcio della recensione del GAZZETTINO e la prefazione di Sabino Acquaviva

 

1866: l'anno della cessione del Veneto ai Savoia. Ci insegnarono che quel plebiscito fu una specie di festa nella quale un popolo esultante ed unanime si riunì alla patria.
Beggiato smonta la menzogna lasciando parlare i documenti, ci racconta una storia veneta che nessuno ci ha mai raccontato. E la prefazione di Sabino Acquaviva che impreziosisce il volume (che riportiamo sotto) ha il merito di riconoscere la dignità di queste posizioni, talvolta oggetto d'ingiusta e spesso ignorante derisione, e di porre un problema di verità: tanti anni dopo, nell'Unione Europea, è tempo che nelle scuole e fuori si racconti finalmente la verità sul Veneto e sul Risorgimento, sulla forzata annessione all'Italia di un popolo che voleva restare veneto. Ed è tempo che su questa verità si costruisca quell'Italia "federazione di popoli" per la quale si battè l'insorta Venezia di Daniele Manin (Al.F.  recensione su Il Gazzettino, 2.12.1999).

 
La Prefazione di SABINO ACQUAVIVA

"1866: LA GRANDE TRUFFA" - Un libro importante, culturalmente e politicamente. Ci Parla della nostra storia, di quanto è accaduto quando il Veneto è stato annesso all'Italia. Ci narra quel che è veramente successo, oltre ogni descrizione oleografica, falsa e falsata per motivi politici.. Noi tutti sappiamo che l'unificazione del paese è stata più imposta che voluta. Che è arrivata sulla punta delle baionette dell'esercito piemontese, che molti plebisciti sono stati manipolati, che nel 1848 la maggioranza dei veneti si è battuta contro l'Austria in nome di San Marco; che addirittura, dopo la vittoria di Lissa, sulle navi austroungariche, dove quadri e marinai erano in gran parte veneti istriani e dalmati e quindi provenivano da territori appartenuti alla repubblica di Venezia, si gridò "viva San Marco". Sappiamo anche, purtroppo che una ricostruzione di parte della storia è stata poi travisata nei libri di scuola ed è stata imposta alle nuove generazioni.
Oggi, dopo oltre un secolo e mezzo, è nostro dovere ricostruire la storia della regione in cui viviamo o siamo nati. Qualcuno ha detto che nella storia, se le radici sono nel passato, se il presente è il tronco dell'albero, il futuro è nelle sue foglie. Pensare il futuro del Veneto, anzi del Triveneto, significa dunque e anzitutto esplorarne le radici, lontane e più recenti. Questa regione, contrariamente ad altre, possiede una sua lingua, che è stata lingua franca e internazionale per secoli, almeno nel Mediterraneo orientale. E' l'unico dialetto-lingua parlato fuori d'Italia in regioni abbastanza vaste e in Stati diversi. Dunque si tratta di un popolo con una forte identità, e fa bene Beggiato a cercare di capire, nel suo libro, perché questo popolo ad un certo punto ha abdicato e alla fine accettato di esserne parte dell'Italia unita. Ma ha accettato o subito l'Unità? A partire dal 1866 il governo centrale ha sistematicamente combattuto, non soltanto nel Veneto ma in ogni regione d'Italia, le identità regionali. Le resistenze sono state modeste, ogni lingua e cultura si è inchinata di fronte al prevalere del toscano, chiamato italiano, insegnato e imposto a scuola, dove chi parlava la sua lingua regionale veniva punito, spesso ridicolizzato.
Naturalmente, alcune lingue che erano state utilizzate nell'ambito di stati regionali hanno resistito meglio e più a lungo al tentativo di cancellarle. Pensiamo al napoletano, al siciliano, al veneto. Comunque è un fatto che molti popoli nello spazio di un secolo hanno dimenticato la loro identità, la loro lingua,  la loro cultura, anche perchè hanno cancellato dalla memoria la propria storia. Questo è successo, almeno in parte, anche nel triveneto. E non parliamo di Nordest, per favore, non utilizziamo questo neologismo povero e incolore!E' giunto il momento di riacquistare la memoria. A questo scopo dobbiamo fare un paziente lavoro di certosini, riscrivere la storia, reintrodurre, affinchè non muoia, l'insegnamento della lingua veneta, dopo avere approntato delle grammatiche standardizzate e pubblicato dei vocabolari. Ma tutto questo, ripeto, deve accompagnarsi ad una riscoperta della storia, ed è appunto quanto fa, in queste pagine Ettore Beggiato.
Questo significa essere contro l'Unità del Paese? Certamente no. Per quel che mi riguarda sono federalista ma anche europeista convinto. Dunque, Stati Uniti d'Europa, una seconda camera delle regioni i cui rappresentanti siano eletti direttamente dalle regioni d'Europa, l'insegnamento obbligatorio dell'inglese in tutta l'Unione europea e delle lingue regionali nelle regioni che ne posseggono una.
Per l'Italia anche una struttura federale degna di questo nome.

Sabino Acquaviva

 
 
 
 
 

 
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