Sebastiano Venier - Venezia e dintorni

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Notizie storiche

SEBASTIANO VENIER secondogenito di due maschi, nacque da Mosé e da Elena Donà, verso l'anno 1496 (provato 11 giugno 1507).
Era di fisico molto sano e robusto, aveva ingegno pronto, varia cultura e la parola facile ed efficace, ma indole furiosa e violenta, che dimostrò fin da ragazzo mischiandosi in risse fra coetanei, dando e ricevendo busse e ferite. E tale cattivo carattere, che dimostrò durante tutta la sua vita, fu certo un grande coefficiente nelle ben note dissensioni, che ebbe con don Giovanni d'Austria prima di Lepanto.
È interessante un battibecco che egli ebbe il 13 settembre 1571, pochi giorni prima della grande battaglia navale, con Niccolò Donà capitano delle navi e fratello del famoso Doge, perché ce lo rivela e ce lo dipinge con grande efficacia.

Il Donà, presentatoglisi a Messina, avendogli subordinatamente fatto osservare che non poteva accettare un incarico che gli si voleva dare, per mancanza di mezzi e per altre ragioni, descrive così l'intervista avuta: <<Questo con brusca ciera et assai rozzamente guardandomi in faccia (era l'eccelentia sua, di longo tempo poco bene affetta alla casa nostra per quello che successe in Cipro con il quondam mio padre, et erra l'uno luogotenente del regno et l'altro provveditor general) mi disse obbedite se non farò quel che conviene, e darò conto al Senato della vostra desobbedienza. Risposi non esser fino a quel dì stato mai disobbediente, che haveva con riverenza rapresentato il stato mio, ma che haverei obbedito, e se non capitano delle navi patron del suo caichio. Stupirno gli astanti del proceder e mi esortorno a non passar più avanti. Misera condition de chi obedisce a gente indiscreta e mal affetta, la qual non havendo riguardo al giusto et all'honesto resta solamente guidata dalle sue passioni.>> Per dare un'idea della sua spietata severità è da notarsi che fece avvelenare e gettare in mare il voivoda di Dragonetti, reo di avere angariato i suoi amministrati.
Il Molmenti scrive che probabilmente nei suoi primi anni viaggiò, come molti patrizi usavano, sulle galere commerciali.
Ho rilevato invece con minutissime ricerche fatte negli archivi, che non solo non ebbe comando o direzione di galere commerciali, ma neppure vi si imbarcò come nobile balestriere, benché nel tiro della balestra eccellesse, come dimostrò combattendo a Lepanto. Meno che mai risulta che abbia servito nella marina da guerra, alla quale apparteneva ai suoi tempi come sopracomito un altro Sebastiano Venier, figlio di Giacomo, di ramo diverso dal suo.
Invece è noto che, ho dai primi anni della sua giovinezza, si dedicò all'avvocatura, dove emerse dimostrando di esser un giurista di non comune valore. Non possedeva laurea dottorale, ma deve aver avuto una buona base di studi giuridici. Sicché giustamente il Conti suo contemporaneo poté scrivere di lui: <<Uomo di chiaro e prestante ingegno, quantunque nelle cose forensi, piuttosto che militari controversie, esercitato.>> Fu quindi avogadore di comune resse vari importanti incarichi in terraferma e Levante, e coprì le più importanti cariche amministrative e politiche.
Per dare un'idea della sua integrità farò presente che, in occasione del matrimonio della figlia, i deputati di Brescia gli mandarono in dono della vernaccia, del formaggio e dei salumi di cervellati. Non volle accettare che qualche salume, dicendo che lo faceva per non dare occasione ai maligni di fargli perdere in un giorno la considerazione che si era acquistata in molti anni.
Per suo intervento venne perdonato a frate Matteo Bascio, processato per avere predicato contro la corruzione dei magistrati veneti.
Egli disimpegnò tutti gli incarichi avuti con tanta soddisfazione della Repubblica che, il 15 maggio 1570, fu insignito della procuratoria de ultra e il 13 dicembre dello stesso anno fu eletto capitano generale da mar. Indubitatamente molta doveva essere la fiducia che ispiravano la sua grande energia, la matura esperienza nella trattazione degli affari di Stato, l'alto senso di giustizia e la grande integrità, che, quantunque fosse stato sempre uomo di toga e mai avesse militato in terra ed in mare, e possedesse solo quella pratica del maneggio delle armi che tutti i gentiluomini dell'epoca avevano, il Senato credette egualmente opportuno di affidargli un incarico che avrebbe richiesto le qualità di valente soldato e di marinaio.
Nessuno ragionevolmente può mettere in dubbio l'indomabile energia ed il valore con cui combatte a Lepanto, rimanendo ferito ad un piede, ma invece è lecito dubitare che possedesse veramente la perizia e le doti necessarie per un capitano generale da mar.
Del discorso, che si dice abbia tenuto ai soldati prima della battaglia, è interessante questo passo, da cui risultano ancora l'integrità e dirittura del suo carattere: <<et io a voi destinato capitano, ma esibitomi sempre fido compagno, vi sarò tale in qual si sii cimento, estraneo solamente nelle spoglie, ne' premi e nelli aplausi, ma insolubil nell'opra, nel obligo, nei rischi et nel paterno amore>>.
Dimostrò anche allora un alto senso di dignità, come apparisce quando scrive al Senato, lagnandosi che don Giovanni avesse mandato Gian Andrea Doria a ispezionare la sua galera: <<Mi riscaldai alquanto che uno Andrea Doria volesse venire a vedere come era ad ordine la galea, di un generale di vostra Serenità, essendo stato per innanzi Don Giovanni e laudatala.>> Stanco per i continui attriti con don Giovanni scrisse al Senato pregando che venisse eletto un altro capitano generale in suo luogo <<più prudente et più paziente>> di lui, ma il Senato non volle saperne. Anche la salute non lo assisteva, essendo travagliato da male ad una gamba, ed una mattina essendo rimasto quasi completamente sordo. È dubbio ciò che taluno afferma, che prima di combattere si sia dimostrato esitante per il timore di un esito sfortunato della battaglia. Ad ogni modo questa incertezza sarebbe più che spiegabile per la grande responsabilità che gravava sopra di lui. A Lepanto ebbe sempre per consigliere Agostino Barbarigo, buon soldato ed esperto marinaio, e dovette attenersi alle direttive impartite dalla suprema consulta dell'armata alleata. E tale dubbio di imperizia viene ancora più avvalorato dalla sua azione fiacca ed incerta dopo la grande vittoria che, se fosse stata sapientemente sfruttata, avrebbe procurato ai veneziani anche senza l'aiuto degli alleati, col favore del mite inverno che permetteva la navigazione, non difficili successi in Levante contro i turchi demoralizzati e quasi privi di flotta.
Del resto anche egli, nella relazione sulcapitanato generale, non esita a riconoscere la sua pocapratica per potere esercitare convenientemente un così alto comando.
La grande integrità, che dimostrò anche in seguito alla vittoria di Lepanto, dopo la quale si tenne come bottino di guerra personale la misera somma di 205 ducati 2 lire e 6 soldi, alcuni coltelli, un filo di coralli e due schiavi negri, mai si smentì, e lo fece perfino ricorrere al patrimonio di suo genero per sopperire alle spese inerenti all'alta carica. Nel 1572, per non continuare a tenerlo in contatto con don Giovanni d'Austria, col quale non andava d'accordo, fu nominato un secondo capitano generale in sottordine nella persona di Jacopo Foscarini, perché servisse da ufficiale di collegamento, mentre Venier restò in Adriatico.
Tornato a Venezia fu accolto con gli onori del trionfo. Quando si trattò di stipulare la pace cercò di opporsi con ogni mezzo, arrivando al punto di offrire tutto il patrimonio per la continuazione della guerra. Alla venuta di Enrico III Re di Francia fu uno dei procuratori designati a portare l'aureo baldacchino sotto il quale il sovrano incedette al suo arrivo a Venezia.
Strano e compassionevole effetto fece ad uno spagnolo nel vederlo calar la stola supplicante sotto le Procuratie Nuove secondo l'uso per ottenere la carica, mentre lo aveva visto eminente capitano generale rispettato e temuto. Infine l'11 giugno 1577 fu eletto Doge, per voto unanime degli elettori, essendo uno dei quarantuno.
Nel conclave si fecero anche i nomi di Nicolò da Ponte e Marco Grimani, ma su di essi non si votò; funse da ballottino un figlio dell'avvocato Francesco Basadonna.
Il Palazzi scrive che dopo essere stato eletto gli fu per scherzo richiesto se preferiva pranzare da privato o da principe, e che egli avrebbe risposto che la differenza fra i due pranzi consisteva solo nella minore etichetta usata in quello dei privati. Il giro nel pozzo attorno alla piazza lo fece gettando molti denari, insieme al genero Morosini e al nipote della moglie Michele Salamon.
Tra i numerosi omaggi avuti da letterati ebbe quello di Isicratea di Monte rodigina, giovanetta di appena quindici anni.
Aveva allora ottantun anni ma era assai vegeto, un poco duro d'orecchio e di voce molto debole. Per farsi sentire, quando parlava in Maggior Consiglio ed in Senato, si alzava dal trono e teneva il discorso in mezzo alla sala, con grande scandalo, essendo rimasti i consiglieri seduti ai loro posti.
Appena eletto ordinò che tutti i patrizi che avevano combattuto a Lepanto vestissero per otto giorni di rosso. Gli fu concesso per mettersi a posto un prestito di 3000 ducati, che dopo morto vennero abbuonati ai suoi eredi.
Fra i tanti che andarono a rendergli omaggio furono dieci turchi ai quali fece molte carezze e notevoli doni.
Per il difficile carattere che come abbiamo veduto aveva larga mente sempre dimostrato, si rese poco accetto anche come Doge.
Un cronista, piuttosto severo, che attribuisce la sua ascensione al dogado più alla ragion di Stato che al suo vero merito, nota pure che dimostrò <<poca gravità et attitudine in sostenere et esercitare la maestà del principato e che aveva fatto spesso desiderare la prudenza e la lingua del principe Mocenigo, suo antecessore>>. A tale proposito si narra che essendo sorta in Maggior Consiglio una disputa per determinare a che magistratura dovesse essere deferito un patrizio, che aveva trasgredito agli ordini avuti, egli se la prese tanto a cuore da dire pubblicamente che voleva buttar via il corno se non gli era concesso di poter prendere provvedimenti almeno per le cose di Stato. Pare che rispondesse con poca dignità alle persone che riceveva nelle udienze, ed anche le risposte che dava agli ambasciatori lasciavano a desiderare. <<Con tutto che fusse stato huomo di lingua et avocato sino all'età di cinquanta anni>>, come un altro cronista ci fa sapere.
Il suo breve dogado trascorse tranquillo senza guerre, e fu turbato solamente da un incendio del Palazzo Ducale, durante il quale non si mosse dal suo appartamento. Causa dell'incendio sarebbe stato il vicentino conte Marzio da Porto, detenuto nelle camere del capitano delle prigioni. Egli avrebbe offerto un banchetto ai suoi bravi durante il quale prese fuoco il camino, che, passando per la travatura della Sala dello Scrutinio, ve lo comunicò per non essere stato a tempo provveduto alla sua estinzione.
Con grande pompa avvenne la presentazione della rosa d'oro destinata in quell'anno (1577) dal Papa Gregorio XIII al Doge di Venezia e poi riposta nel tesoro di S. Marco, dove più non esiste. Si dice che fosse in origine destinata al suo predecessore, ed essendo questo morto, fu a lui mandata.
Morì il 3 marzo 1578, per risipola o per sciatica, mali aggravati secondo alcuni dal dispiacere provato nel vedere anteposto ad un valoroso combattente di Lepanto uno meno meritevole, e per varie decisioni di tribunali a lui apparse ingiuste, e secondo altri per l'incendio del Palazzo Ducale. C'è invece chi dice che si ammalò per aver voluto fare la quaresima secondo l'uso greco vigente presso la sua famiglia. Il regime dietetico inerente gli avrebbe acceso talmente i molti umori biliosi che aveva da fargli venire nella gola la risipola, che in dieci giorni lo spense.
Ne gli servì per vivere di più il metodo per vivere a lungo, stampato anche per lui e per i veneziani dal filologo medico ricordato Tommaso Giannotti Rangone! Ebbe con l'universale compianto solenni funerali, che per il cattivo tempo dovettero aver luogo nella chiesa di S. Marco.
Gli fece l'elogio funebre il dottor Gregorio Manzini, e molte rime compose in sua memoria Giacomo Barbaro.
Nel corteo funebre intervennero con mantelli tutti i patrizi combattenti a Lepanto.
Aveva sposato Cecilia Contarini dalla quale ebbe una figlia di nome Elena, moglie in prime nozze di Federico Corner e in seconde di Francesco Morosini. La Contarini non potè essere coronata Dogaressa, perché il marito morì ed ella non poté fare solenne ingresso in Palazzo Ducale. Nel libro I dei Cerimoniali si vede ritratta vestita a lutto insieme colle Dogaresse Zilia Dandolo Priuli e Loredana Mocenigo Marcello. Era figlia di Natale Contarini del ramo di S. Tomà discendente del Doge Jacopo, e di Lucrezia Molin discendente dalla casata del Doge Francesco vedova in prime nozze di Luca Vendramin, che ebbe due fratelli di cui uno cavaliere. Il marito le lasciò col testamento, fatto prima di essere eletto Doge, la dote completa, che non dice a quanto ammontasse, col vitto ed alloggio che godeva assieme alla figlia Elena ed al marito di questa. Caso mai non avesse potuto vivere con questi stabilì, che fosse compensata col reddito di 2500 ducati investiti a tale scopo. La Repubblica, perché potesse vivere più decorosamente, aggiunse 400 ducati di pensione annua così come aveva fatto per la Dogaressa Zilia Dandolo.
Gli nacquero pure due figli naturali, Filippo che si fece prete,e Marco funzionario di cancelleria (che ricorda nel testamento) dei quali ebbe cura quasi più che se fossero stati legittimi.
Egli possedeva ed abitava una casa, che il Molmenti non si è curato di identificare ma che tuttora esiste in campo S. Maria Formosa e porta i numeri 6127-6150. È un edificio senza riva di approdo di due piani, con le finestre veneziane ad arco acuto, sul quale non sarebbe fuori luogo apporre una lapide che lo ricordi. A lui apparteneva pro indiviso assieme agli altri Venier del suo ramo anche una proprietà nell'isola di Cerigo, che era stata un tempo feudo della famiglia.
In decima egli risulta in possesso del reddito non troppo rilevante di poco più di 403 ducati.
La sua armatura, che fu donata da Venezia all'arciduca Ferdinando II, nipote dell'Imperatore Ferdinando I, il quale desiderò di averla col suo ritratto, si trova nel Museo di Vienna. Si tratta di una mezza armatura senza gambiere di ferro e di una corazzina di velluto rosso senza celata che il Molmenti ha riprodotto in un suo opuscolo. Nel Museo esiste pure una medaglia, che reca nel verso una battaglia navale, ritenuta un ricordo o un omaggio dell'arciduca ai vincitori di Lepanto.
Sebastiano Venier quando morì venne sepolto provvisoriamente, in attesa di erigergli un degno monumento, nella chiesa di S. Maria degli Angeli in Murano, in una tomba vicino ai gradini del presbiterio chiusa da una lapide ora corrosa, come appare dall'iscrizione sopra scolpita. Ciò avvenne contrariamente al testamento, steso il 22 giugno 1568 prima di essere eletto Doge, in cui Venier disponeva di essere sepolto nella tomba di famiglia, che stava sotto il coro delle monache della stessa chiesa, e sulla lapide della quale, rotta in due pezzi, il Cicogna lesse l'iscrizione:
MOYSI VENERIO . . . SIBI SVISQUE P . . .
Sembra avesse una speciale predilezione per questa chiesa, essendovi stato benedetto il suo matrimonio ed essendo monaca nell'annesso convento sua sorella Eugenia.
La sepoltura da provvisoria divenne stabile e nessuno degli appartenenti al suo ramo, che si estinse completamente solo nel secolo decimottavo, si ricordò di adempiere alla volontà del Doge. Ne valse il richiamo dello storico Giampietro Contarini, che scrivendo della battaglia di Lepanto esclama: <<Non ha egli meritato una statua di bronzo ad eterna memoria del suo valore et specchio come gli altri nobili venetiani si devono portare verso la patria?>> Egli era invece soltanto ricordato in due busti, uno in bronzo di Tiziano Aspetti ed uno in marmo di Alessandro Vittoria, esistenti nella Sala delle Armi del Consiglio dei Dieci in Palazzo Ducale.
Una madonna greca, di fattura quattrocentesca in cornice del Settecento appesa ad un pilastro della cappella della Concezione nella chiesa di S. Maria Formosa, dono del conte Giovanni Battista Venier, si dice gli abbia appartenuto e lo abbia seguito nella gloriosa sua epopea, stando sempre attaccata ad una parete del quadrato di poppa della sua galera.
Varie e notevoli sono invece le memorie della grande giornata. Il portale dell'Arsenale con due Vittorie alate e una S. Giustina di Girolarno Carnpagna, la cappella del Rosario dei S.S. Giovanni e Paolo andata arsa e oggi restaurata, una lapide sul castello di S. Andrea del Lido, un paliotto d'altare in marmo scolpito di Domenico Grazioli a S. Giuseppe di Castello, un dipinto di Paolo Caliari alle Gallerie, già nella chiesa di S. Pietro Martire di Murano, un dipinto rappresentante S. Giustina dell'Aliense e di Palma il Giovane che stava un tempo su un armadio della Sala d'Armi del Consiglio dei Dieci e la bandiera del Sangiacco Sciari Alì Pascià presa a Lepanto.
Per incidenza ed a titolo di curiosità ricorderò che il memorabile evento ha risvegliato anche la fantasia dei drammaturghi col Trionfo di Cristo contro i turchi di Celio Magno edito nel, 1571 e col Trionfo della Lega di Cesare Tomeo edito nel 1575, e l'estro dei musicisti nel melodramma di Tommaso Genovese con poesia di Leopoldo Tarentini rappresentato nel 1835.
Solo verso il 1896 per iniziativa di Pompeo Molmenti si ma turò il proposito di portare la salma di Venier nella chiesa dei S.S. Giovanni e Paolo in mezzo agli altri eroi veneziani che vi riposano. Non so se sia stato bene. Forse era più suggestiva ed imponente la semplice sepoltura nell'eremo di Murano con la molto appropriata iscrizione, che il monumento piuttosto me schino dei S.S. Giovanni e Paolo. Il compianto conte Giovanni Battista Venier, ricordato degnamente da un busto in bronzo erettogli mentre era vivo sopra una delle porte della chiesa di S. Maria Formosa, si offerse subito di concorrere alla spesa, e dette così possibilità alla formazione di un comitato. In un primo tempo il progetto sil imitava alla collocazione ai S.S. Giovanni e Paolo di un busto esistente del Venier sopra un'urna che ivi si trovava e che avrebbe servito a contenere e sue spoglie mortali.
Ma poi il comitato mutò idea, e, nell'intento di attuare un più conveniente disegno, fece pratiche con il noto scultore Antonio dal Zotto, il quale generosamente si offerse di modellare gratuitamente la statua dell'eroe.
Il consiglio comunale di Venezia, accettando con il concorso del comitato l'offerta del Venier e del dal Zotto, dette più tardi col proprio suffragio e facendo sua la proposta, più solenne significato all' onoranza.
Il 24 aprile del 1896 venne aperta la tomba del Venier; nella stessa si trovarono, con le sue, molte altre ossa, che si suppone siano state tolte dalla tomba paterna, distrutta dopo il 1810, supposizione corroborata dai medici assistenti all'apertura, i quali riscontrarono nei sei crani esistenti tali analogie da ritenerli appartenenti a membri di una stessa famiglia. Uno fra questi assai grande per la consistenza e grossezza dell'osso appariva come quello di un uomo di età molto avanzata. Non ci può esser dubbio che fra le ossa ci siano anche quelle del vincitore di Lepanto.
Furono trovati insieme anche i grani di un rosario, che potrebbero essere appartenuti a quella filza di coralli, da lui presa a Lepanto e che volle forse con se nel sepolcro.
La spesa venne preventivata in 9000 lire, delle quali 6000 vennero versate dal conte Venier e 3000 dal comune di Venezia, che si assunse in più le spese del trasporto da Murano a Venezia e delle onoranze.
Per attuare la generosa offerta dello scultore dal Zotto il ministro della Marina offrì il bronzo della statua e la spesa della fusione.
La statua dell'eroe, che posa sopra una mensola di pietra d'Istria scolpita a fogliami sotto un semplice arco gotico pure nella detta pietra, lo rappresenta, come si vede nei dipinti, che ancora restano, durante la battaglia navale, a poppa della galera, senza copricapo, le pianelle ai piedi, il bastone di comando nella mano destra, la sinistra appoggiata sulla spada. Sotto la statua è collocata la lapide di marmo con l'iscrizione che chiude il loculo nel muro, dove venne collocata l'urna con le ossa.
Il monumento sorge a destra di chi guarda la porta della cappella del Rosario, vicino alla tomba del Doge Antonio Venier che la sovrasta.
Il solenne trasporto delle salme, da Murano a Venezia, ebbe luogo il 30 giugno I907. Le ossa, collocate in una piccola urna sigillata in forma di feretro, di legno nero fregiata sul coperchio dagli stemmi uniti di Murano e di Venezia e sui fianchi dalle armi dei Venier, vennero trasportate da sei sottocapi della Regia Marina preceduti da altri due, che portavano sopra un cuscino di velluto rosso orlato d'oro un bastone di comando ed una spada nuda del tempo, in una barca a vapore con bandiera a mezz'asta. Sulla prua si ergeva un leone coronato e sulla poppa un fanale turco e sui fianchi del piccolo catafalco, che sosteneva l'urna, si vedevano festoni di mirto e trofei di armi turche.
Le salme salutate dagli equipaggi di otto torpediniere a Murano, dalle salve della nave Tripoli nel bacino di S. Marco e dalle truppe di terra e di mare, schierate sul piazzale della chiesa di S.Maria degli Angeli a Murano, sulla piazza S. Marco e nel campo dei S.S. Giovanni e Paolo, vennero prima trasportate per la solenne funzione nella basilica di S. Marco epoi perlainuma zione ai S.S. Giovanni e Paolo. Tutti i palazzi del Canal Grande erano adorni di bandiere ed alcuni avevano esposto pregevoli arazzi, mentre un'enorme folla si pigiava dovunque passava il corteo. Magnifico era il catafalco innalzato a S. Marco, formato ai fianchi da due parti del pizzuol di un'antica galera, sul fronte verso la porta da uno stemma dei Venier in legno scolpito e dorato, e sul fronte opposto da un pregevole leone di S. Marco dorato del '500, con sotto un bellissimo fanale sormontato dalla mezzaluna. Ai fianchi erano disposte armi, bandiere, armature e cose prese ai turchi, e ai quattro angoli cannoncini pure presi ai turchi. Dal palco scendeva in elegante drappeggio fino a lambire il pavimento un prezioso enorme soprarizzo, e in alto posava una spingarda ricoperta dalla bandiera di S. Marco e tutta irta di lame, di alabarde e di spade con sopra l'urna.
Assistettero alla cerimonia la Regina Margherita ed il duca di Genova, seguiti da tutte le autorità fra le quali parlarono eleva tamente ilsindaco conte Filippo Grimani perla città di Venezia e l'assessore conte Federico Pellegrini per il comitato.
Un tempo, nella Sala dello Scrutinio nel Palazzo Ducale Sebastiano Venier appariva in un grande dipinto di Jacopo Tintoretto, che lo rappresentava alla battaglia di Lepanto. Tale dipinto, andò disgraziatamente perduto nell'incendio del 1577 ed in sua vece ne figura uno di Andrea Vicentino nel quale campeggia egualmente la sua maschia persona. A proposito ricorderò che Giuseppe Garibaldi guardandola si dice abbia rilevato la perfetta somiglianza con se stesso.
Nel soffitto della Sala del Maggior Consiglio è stato dipinto da Pietro Longo con l'esaltazione del suo valore, e sopra il seggio ducale nella Sala del Collegio da Paolo Veronese dinanzi al Salvatore assieme ad Agostino Barbarigo e ad altre figure simboliche e di santi.
Il suo stemma fa degna mostra di se sulla Scala d'Oro e nel soffitto della Sala del Collegio, ed un busto in marmo lo ricorda nel Pantheon degli uomini illustri.
Parecchi i ritratti che ce lo rappresentano. A Venezia al Museo Correr ne è esposto uno attribuito al Vicentino, e due attribuiti al Tintoretto si vedono alla Galleria degli Uffizi di Firenze e del Prado a Madrid.
Nel palazzo Mocenigo uno, opera del Tintoretto si vedeva ai nostri giorni. Nel Kunst Historisches Museum di Vienna ve n'è un altro della scuola di Tintoretto. Due quadri di ignoti che lo rappresentano sono conservati ad Ambras Schloss vicino ad Innsbruck e in questa città. Il primo ha oltre alla sua effigie quella di don Giovanni d'Austria e quella di Marcantonio Colonna.
Un altro simile è stato dipinto da Palma il Giovine per commissione della confraternita bresciana del Rosario. Il Ridolfi ricorda che fu ritratto anche da Jacopo da Ponte detto il Bassano.
A stampa è notevole quello che il Franco ha riprodotto nei suoi Habiti.
L'osella coniata sotto il suo dogado ha figure simboliche ed un motto che secondo alcuni allude a Lepanto e secondo altri alla peste del 1576. Una medaglia d'argento coniata sotto il suo dogado ricorda Lepanto. Della rosa d'oro a lui donata esiste una riproduzione a colori al Museo Correr. Per ultimo ricorderò che, sul finire del 1800, il suo nome corse di nuovo sui mari inciso sullo scafo di una cannoniera della nostra Marina da guerra. Della famiglia Venier continuano ancora i rami di S. Agnese e di S. Mattino al ponte dell'arco. Del primo è da ricordarsi Sebastiano, colonnello d'artiglieria nella riserva attualmente vivente, e del secondo Giuseppe, alto funzionario delle prefetture mancato ai vivi in questo secolo.


 
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